In origine Montughi era il colle dove c’è la chiesa di San Martino, poi il nome fu dato anche alla zona in cui si trova il Convento dei Cappuccini e la chiesa di San Francesco.
Montughi significa “Monte degli Ughi” o “Mons Ugonis”, dalla famiglia Ughi che ebbe qui la residenza col suo capostipite Ugo (od Ugone), marchese di Toscana. Fino al 1292 gli Ughi ebbero cariche politiche, poi svolsero professioni giuridiche. Alamanno Ughi divenne marchese nel 1782 e, dopo le nozze di Minerva Ughi e Orlando Lorenzi, la famiglia si estinse.
Documentata dal 1222, la Chiesa di San Martino fu costruita “dalle fondamenta” su una presunta chiesa primitiva nel 1539, per volere del parroco, l’insigne latinista don Francesco Campana, che nel 1531 divenne segretario della Repubblica Fiorentina. Fu incaricato l’architetto Giuliano di Baccio d’Agnolo, che provvide anche alla realizzazione della loggia della canonica, decorata a stucchi con scene e figure mitologiche.
All’altare della Madonna del Rosario, una tela di Matteo Rosselli, rappresentante la Vergine e i Santi. All’altar maggiore, San Martino di Agostino Veracini. Di fronte, il Crocifisso con i santi Filippo, Antonio, Carlo e Sebastiano, opera eseguita nel 1631 da Jacopo Vignali.
Nel 1782 Carlo Filippo Ughi apportò miglioramenti: fece il soffitto nuovo, il campanile, l’altar maggiore. Nell’interno della Chiesa fu sepolto l’incisore in rame napoletano Raffaello Morghen, nato a Portici nel 1758 e morto a Firenze nel 1833 e l’astronomo Cosimo Vignali. Il monumento del Morghen è nella navata sinistra della Basilica di Santa Croce, eseguito da Odoardo Fantacchiotti nel 1854 a spese degli allievi del Morghen.
Dal 1910 al 1924 fu ricostruita la nuova chiesa perché la vecchia era pericolante e Frederick Stibbert, che edificò la villa di fronte alla Chiesa, fece una donazione per il nuovo campanile. Il progetto venne curato da Giovanni Paciarelli.
L’11 febbraio 1933 fu portata a termine la nuova facciata che ospita una lunetta, sull’architrave, rappresentante San Martino nell’atto di dividere il suo mantello con il povero, opera di Mario Chiari, nipote del parroco don Alessandro Sostegni. Proprio in questi anni il parroco capì che era giunto il momento di costruire una nuova chiesa nella piana sottostante al colle, per avvicinare e servire meglio la popolazione che si espandeva ai piedi di Montughi. I lavori per la chiesa dell’Immacolata iniziarono nel 1935 e terminarono l’anno successivo. Oggi le due chiese fanno parte della stessa parrocchia.
SAN MARTINO DI TOURS STORIA E MEMORIA
Celebrazione di San Martino di Tours nelle Liturgie occidentali antiche – Mariangela Toniolo
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II. – VITA DI MARTINO
- Nascita e fanciullezza
Secondo le informazioni di Gregorio di Tours e gli ultimi studi di Elie Griffee Jacques Fontaine, Martino nacque nel 316/17 a Sabaria, città fortificata, alla frontiera dell’Impero Romano d’occidente, centro importante della Pannonia inferiore (oggi Szambatkely). Suo padre era un tribuno militare che, per amore del dio della guerra Marte, chiamò suo figlio Martino, cioè piccolo Marte. La fanciullezza di Martino trascorse però in Italia, a Pavia, dove il padre era stato trasferito in una nuova guarnigione. Qui ricevette l’educazione tipica dei fanciulli romani, figli di militari, seguendo verosimilmente il corso regolare degli studi classici, «senza giungere tuttavia a quegli studi che noi chiameremmo superiori, perchè giovanissimo a 15 anni entrò nell’esercito». Ma già in quegli anni, forse proprio frequentando la scuola, Martino ebbe modo di conoscere il cristianesimo, venendo subito conquistato dal fascino di questa nuova religione dal volto umano eppur sublime, tanto che «a dieci anni, contro il volere dei genitori, si rifugiò in una chiesa e domandò di diventare catecumeno». I suoi genitori infatti erano pagani e il padre, come si desume dell’ostilità verso la condotta del figlio era tenacemente legato al culto dell’impero e ben deciso a determinare il futuro del figlio: sognava per lui una brillante carriera militare. Non era questo il desiderio di Martino che aspirava piuttosto al servizio di Dio, «sempre proteso verso le celle degli eremiti o verso la Chiesa». Tuttavia il suo animo buono accettò il volere del padre. - Il soldato e il cristiano
A quindici anni Martino prestò il solenne giuramento militare, giacchè ciò era previsto dalla legislazione vigente, riguardo ai figli dei veterani, ma ancor più perché forzato dall’autorità paterna. Entrò dunque, con il grado di circitor, nella militia aequestris, con doppio soldo, avendo anche la facoltà di tenere con sé uno schiavo. Martino trascorse tre anni nella militia prima di diventare cristiano comportandosi «come un candidato al Battesimo e come un ascoltatore non sordo ai precetti del Vangelo». Egli infatti trattava il suo schiavo come un fratello, era pieno di benignità, di pazienza verso i commilitoni, frugale, umile, integro dai vizi che solitamente avviluppano gli uomini d’armi. Martino era un giovane esemplare; si allenava dunque a divenire quel «soldato di Cristo» che solo più tardi compiutamente sarà, compiendo fin d’ora, da catecumeno, le opere proprie del cristiano: «soccorrere gli sventurati, nutrire i bisognosi, vestire gli ignudi». - Il Battesimo
Martino si trovava allora nell’importante guarnigione romana di stanza nella Belgica Secunda, proprio nella città di Amiens. Qui, in un inverno particolarmente rigido, gli si offrì l’occasione di operare non secondo il criterio dell’egoismo e della stoltezza, proprio dei molti (come Sulpicio rileva bene), ma seguendo quell’impulso interiore di chi è condotto da Dio. Senza esitare, diede metà del suo mantello al povero che chiedeva di essere aiutato. Sappiamo che questo fatto determinerà la iconografia martiniana per secoli, ma già prima aveva determinato la decisione di Martino. Infatti, dopo il sogno nel quale il Cristo stesso gli si presentava vestito del suo mantello e proferiva le solenni parole: «Martino che non è che un catecumeno mi ha coperto con questa veste», si affrettò a ricevere il sacramento della rigenerazione, il Battesimo dei cristiani. Era il 334 e Martino aveva 18 anni. Dopo il Battesimo, diventa difficile stabilire la cronologia della vita di Martino, seguendo Sulpicio Severo che «dichiara che il giovane ufficiale rimase ancora per due anni nell’esercito, ma è quasi certo che la sua permanenza fu più lunga… Secondo le ricerche più recenti… pare si debba giungere alla conclusione che Martino rimase ufficiale nelle alae scholares per circa vent’anni. Se Sulpicio calcola in due anni la permanenza del suo maestro spirituale nelle alae, si tratta di un errore o più verosimilmente di un pretesto per non aggravare quella che allora era un’irregolarità canonica per una elezione episcopale». Si sa che a quell’epoca c’erano molti pregiudizi sul servizio statale e militare, diffusi tra gli ambienti ascetici ed ecclesiastici, si era perciò sfavorevoli all’ammissione nel clero di persone che avevano militato nell’esercito. Sulpicio, avvocato di professione, volle difendere il suo santo dalle critiche dei contemporanei, lasciando nel vago la cronologia degli anni che Martino trascorse nella militia. «Martino desiderava sottrarsi al servizio militare, ma una volta arruolati nella guardia imperiale non si poteva lasciarla né rapidamente né facilmente». A trettenerlo nel servizio militare c’era un legame di amicizia con il suo tribuno, che gli aveva promesso di ritirarsi dal mondo alla scadenza della sua ferma. Martino dunque proseguì il suo servizio militare «benchè soltanto di nome» venerato con grande affetto dai commilitoni, ammirati dalla sua virtù, infatti «si sarebbe creduto non soldato, ma monaco». - Il congedo
Il 356 per Martino fu un anno decisivo perché si avvicinava il momento di attuare il progetto che da anni maturava nel suo cuore: lasciare il servizio dell’imperatore, finalmente libero da ogni vincolo umano, servire soltanto il suo Signore; essere un vero soldato, non più di Cesare, ma di Cristo, come lo erano i monaci. Nel 355 il Cesare Giuliano era stato incaricato di arrestare le avanzate dei barbari nelle Gallie. Perciò nei primi mesi del 356 egli si apprestava a radunare truppe romane nella città dei Vangioni (Worms). Questo era il tempo propizio a Martino per presentare la sua richiesta di congedo dal servizio militare. Cogliendo l’occasione di una distribuzione di donativi ai soldati, come era consuetudine, presso i romani, prima di ingaggiare la battaglia, Martino disse al Cesare «finora ho militato ai tuoi ordini permettimi ora di militare al servizio di Dio. Riceve il donativo chi fa proponimento di combattere per te; io sono soldato di Cristo: combattere non mi è lecito». Nonostante l’ira del Cesare, contrariato dalla richiesa di Martino, questi rimase fermo nel suo proposito e infine, aiutato dal Signore, lasciò il servizio della cavalleria inperiale. Martino aveva allora quarant’anni, era un uomo maturo che stava per finire una carriera durata venticinque anni (dal 331 al 356). Lo Studioso J. Fontaine ha mostrato come questa cronologia “lunga” renda più plausibile tutto il racconto della carriera militare di Martino. - Incontro con Ilario di Poitiers
Quando Martino giunse a Poitiers nel 356, Ilario era vescovo di questa città da qualche anno, ma già la sua fama di controversista nella lotta agli ariani si era diffusa nelle chiesa della Gallia e Martino certamente aveva avuto notizie della grande fede di quest’uomo santo, perciò, pieno di ammirazione, decise di recarsi da lui per essere iniziato al servizio di Dio a cui aspirava ardentemente. Qui «rimase per qualche tempo», divenendo discepolo di Ilario. Questi, già profondo conoscitore della Sacra Scrittura trasmise a Martino l’amore per la Parola di Dio meditata e imparata. «Alla scuola di Ilario Martino visse una vita di perfezione nel servizio attivo della Chiesa. Già nel 356 egli ricevette una prima formazione tra i presbiteri di Poitiers, dove poteva esistere una vita cenobitica, come quella di Vercelli, presso il vescovo Eusebio». A quell’epoca non c’era ancora il divieto esplicito per gli ex-militari riguardo agli ordini sacri (370), ma Martino nella sua umiltà non accettò il diaconato che Ilario più volte gli offrì. Divenne perciò esorcista, un incarico più umile, di solito poco ambito. - Viaggio in Pannonia
Dopo alcuni mesi di permanenza a Poitiers, Martino ebbe un sogno premonitore, riguardo ai suoi vecchi genitori, ancora pagani. Sembrandogli questo un segno della volontà di Dio, partì con il consenso di Ilario alla volta della Pannonia «con l’animo mesto, avendo assicurato ai fratelli di dovere affrontare molte avversità». Si intuisce la tristezza di Martino che lasciava un maestro a cui si era legato con tanta amicizia, che piangendo lo supplicava di ritornare. Attraversò le Alpi e qui cadde in mano ai briganti, ma confidando nella misericordia di Dio «che si manifesta nelle prove della vita», riuscì ad ottenere la conversione di uno di loro. Dopo aver superato Milano, ebbe inizio per Martino quella serie di incontri e di lotte con lo spirito del male che doveva caratterizzare tanta parte della sua vita, sia come monaco sia in qualità di vescovo. Qui Martino comincia davvero una nuova milizia, a servizio di Cristo, contro le forze del male che in modo svariatissimo lo tormenteranno; qui eserciterà ancor più la sua tempra di soldato, ormai teso ad estendere un altro impero, quello del Signore Gesù. Gli si presentò dunque il diavolo che con baldanza disse: «dovunque andrai e qualunque cosa tenterai, troverai il diavolo davanti a te». In quest’occasione viene evidenziata la familiarità di Martino con la Sacra Scittura quale potenza è la Parola di Dio! Prendendola dunque come suo scudo proclamò: «Il Signore è il mio sostegno, non temerò che cosa possa farmi l’uomo». A quelle parole il demonio fuggì. - Lotta contro il paganesimo e l’arianesimo
Giunto nella sua patria, in Pannonia, con l’ardente desiderio di portare alla luce della verità i suoi genitori, riuscì a convertire sua madre, mentre il padre, l’antico uomo d’armi fedele al culto degli dei, rimase irremovibile nel paganesimo. Martino cristiano esemplare, attirò molti a Cristo e iniziò proprio nella sua regione quella nuova militia per propagare il Regno di Dio. Il suo santo maestro Ilario bene lo aveva preparato a queste battaglie, perciò Martino non esitò «a rintuzzare con fierissima energia la fede corrotta dei vescovi», giacché l’eresia ariana avanzava come una mareggiata, diffondendosi ovunque e «soprattutto nell’Illirico». Martino, uomo coraggioso, che aveva in Dio il suo sostegno, sopportò tutto. Fu maltrattato, battuto con verghe, cacciato dalla città. S’avviò allora verso la Gallia, tornando da Milano, dove ebbe notizia che Ilario era stato esiliato in Frigia dagli eretici ariani, dopo il concilio di Béziers del 356, al quale aveva imposto la sua volontà l’imperatore Costanzo. A Milano lo attendevano altri spirituali combattimenti; infatti il vescovo allora era Aussenzio, tenace sostenitore dell’arianesimo, designato alla carica vescovile dallo stesso imperatore. Martino allora si fermò a Milano, dando inizio a quel sogno della vita che da anni teneva nell’animo: essere monaco al pari di quegli eremiti che illuminavano da tempo la Chiesa in Oriente. Il monachesimo già albeggiava in Occidente con Eusebio di Vercelli e con la permanenza di Atanasio a Treviri, ove si divulgò la fama del grande Antonio eremita d’Egitto. Martino conosceva l’arma sicura contro ogni forma di male, ma specialmente contro quello dello spirito, quale l’eresia e l’incredulità: l’arma cioè della preghiera incessante. Si ritirò dunque «in eremitaggio». Qui fu accanitamente perseguitato da Aussenzio che vedeva in lui un pericoloso oppositore e forse più ancora l’esemplare evangelico che avrebbe attirato il popolo, perciò «più volte oltraggiatolo, fece scacciare dalla città Martino». - Martino monaco
Martino non si turbò a tale evento, ma docilmente accettò le circostanze avverse, decidendo di ritirarsi in un luogo deserto a continuare l’esperienza eremitica intrapresa. Si fermò dunque nell’isola Gallinaria «in compagnia di un prete, uomo di grandi virtù». Era il 360 quando Ilario tornava dall’esilio, rientrando a Roma e Martino avutane notizia si avviò verso la città, ma non trovò il suo maestro; allora lo raggiunse a Poitiers, dove Ilario lo accolse «con ogni affettuosità». Qui ebbe inizio la terza esperienza eremitica di Martino, quella di Ligugé, che sarà il primo vero monastero della Gallia e dell’Occidente. Sulpicio nar ra che Martino «stabilì una cella d’eremita non lontana dalla città». «Ilario possedeva ad alcune miglia da Poitiers una villa e permise al suo chierico di ritirarvisi. Laggiù Martino visse come un monaco, ben presto circondato da discepoli ed evangelizzando coloro che abitavano nei dintorni. Questa fu l’origine del monastero di Ligugé, il più antico conosciuto in Europa. Probabilmente al tempo di Martino vi era in questo luogo un centro per la preparazione di catecumeni e forse anche un battistero campestre. Recenti scavi hanno rivelato infatti l’esistenza di una villa gallo-romana del secolo IV e quindi di un martyrium più tardivo. Gregorio di Tours parla di quest’ultimo nel racconto del suo pellegrinaggio a Ligugé». «Se Sul – picio non ci informa sulle relazioni di Ilario e di Martino nei sette anni in cui Martino visse presso il vescovo di Poitiers, possiamo tuttavia supporre che ci siano stati contatti più o meno stretti nei quali Ilario avrà dato il contributo maggiore. La posizione sociale del vescovo di Poitiers, la sua cultura, la profondità del suo ingegno, quale si manifesta nelle sue opere, lo rendono per molti aspetti superiore all’antico uomo d’armi che fa esercizio di pratiche ascetiche. Benchè Martino avesse condotto vita d’a – scesi già prima del secondo soggiorno a Poitiers, e la sua fondazione di Ligugé somigliasse molto, inizialmente, alle celle di Milano e della Gallinaria, c’è modo di credere che Ilario influenzò la spiritualità ascetica di Martino». - Martino monaco-taumaturgo
In modo ammirevole il Signore manifestò la sua presenza ed approvò agli occhi di tutti il suo monaco Martino, concedendogli il carisma dei miracoli. Proprio a Ligugé ebbe inizio quella straordinaria attività taumaturgica che tanto attirò le folle dei semplici attorno a Martino, in tutta la Gallia. Un catecumeno del monastero di Ligugé venne risuscitato dopo tre giorni dalla morte e così pure un povero schiavo di un notabile, in una casa poco lontana dell’eremo di Martino. È lecito chiedersi con quali mezzi Martino operasse tali prodigi. Una sola è la risposta: non con gli accorgimenti umani e perciò magici; ma solo con la pregheira umile e intensa, avendo «tutto l’animo concentrato nello Spirito Santo». Viene spontaneo il raffronto con episodi simili narrati nella Scrittura. Conosciamo infatti che Pietro e Paolo durante la loro missione evangelizzatrice operavano miracoli, risuscitando perfino i morti (cfr. At 9, 40-41 e At. 20,9-12); in questo modo si realizzava la parola di Gesù (cfr. Mc 16, 17-18) che aveva promesso segni straordinari a testimonianza del suo nome potente. Come non scorgere allora in questo secolo IV, nella persona di Martino, il continuatore degli Apostoli? Anch’essi «predicarono dap pertutto mentre il Signore confermava la Parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16, 20). E Sulpicio, cogliendo con finezza tale somiglianza dice che «da questo momento, per la prima volta la rinomanza dell’uomo beato risplendette; così chi era già da tutti ritenuto santo, fu anche ritenuto potente e veramente simile agli Apostoli». - Martino monaco-vescovo di Tours
Già nel 367 era morto il grande Ilario, l’Atanasio d’occidente, da tutti ammirato per la sua fermezza nella fede e la profonda conoscenza delle cose di Dio e Martino, memore dei suoi insegnamenti ri – mase a Ligugé, continuando la sua vita umile e a scetica, che durava già da sette anni. Dopo qualche anno anche nella città vicina mancò il vescovo e «quando i cristiani di Tours furono chiamati a scegliere un nuovo pastore, per sostituire Liborio che era morto nel 371», vollero che Martino governasse la loro Chiesa. Sulpicio descrive l’elezione di Martino come un trionfo: «In mirabile modo un’incredibile moltitudine, non solo da quel borgo, ma anche dalle città vicine si era radunata per recare i suoi suffragi. A tutti un’unica volontà, i medesimi desideri; il medesimo sentimento: Martino era il più degno dell’episcopato; fortunata la Chiesa che avrebbe avuto un tal vescovo». Eletto per acclamazione di popolo, Martino non potè sottrarsi e fu consacrato vescovo di Tours, il 4 luglio del 371. Alcuni tuttavia, tra i vescovi convocati, si opponevano alla sua consacrazione, non ritenendo che il suo aspetto esteriore fosse onorevole per la carica episcopale; ma «il Signore rendeva gloria a se stesso nella persona di Martino». L’incarico episcopale non turbò né inorgoglì il nostro santo che «perseverava con assoluta fermezza ad essere l’uomo che s’era mostrato in precedenza. La medesima umiltà nel suo cuore, la medesima povertà nel suo abito; e così pieno d’autorità e di grazia, compiva il suo ufficio episcopale, tuttavia in modo da non tralasciare la condotta e le virtù monastiche». - Martino vescovo missionario
Dal 371 la storia di Martino è quella del suo episcopato, durato ben ventisei anni (dal 371 al 397). Da questo preciso momento «egli risponde alla ricchezza delle sue molteplici vocazioni, che deve certo alla formazione ricevuta da Ilario, ma anche, senza dubbio, al suo proprio genio spirituale, sapendo trasporre nella militia Ecclesiae le esperienze della militia Caesaris… Questa spiritualità ricchissima non rinnega nulla del suo passato: la sua pastorale di vescovo sarà dunque militante e al tempo stesso monastica». Martino iniziò un’intensa opera missionaria fuori dalla città di Tours, nelle campagne, ben conoscendo, per la sua passata esperienza militare, quale fosse la situazione delle popolazioni galliche. «Nel IV secolo soltanto la Provenza e in genere le coste del Mediterraneo erano solidamente evangelizzate, così come la valle del Rodano. Il rimanente della Gallia possedeva comunità cristiane isolate e quelle delle città principali: l’autorità del vescovo era limitata dai bastioni della città. Le campagne inoltre, erano spesso divise in grandi poderi coltivati da coloni e schiavi… C’erano soltanto dei borghi (vicus) in cui, forse, la popolazione era in piccola misura simile a quella delle città minori». Martino si adoperò con energia e coraggio eccezionali: in lui traspariva la fierezza e la forza dell’antico ufficiale dell’esercito. Ma era il suo zelo per il Regno di Dio, per la causa di Cristo che lo spingeva ad agire. Non temette l’ostilità dei pagani né i pericoli per la sua vita. Sempre fiducioso nell’aiuto divino intraprese e continuò quell’opera di evangelizzazione per la quale si sentiva insignito dal mandato episcopale. Per anni lottò contro il paganesimo delle campagne galliche, soccorso sempre dal carisma dei miracoli che Dio gli concedeva. Alcuni fatti narrati dal Sulpicio sono emblematici del suo ministero e del carisma taumaturgico: un pino sacro si abbatté altrove mentre Martino alzava il segno della salvezza; il fuoco, appiccato al tempio pagano, si arrestò vicino alla casa senza danneggiarla; il coltello di chi lo stava per ferire sfuggì di mano; la turba che conduceva al sepolcro un pagano si arrestò; un intero villaggio rimase impietrito mentre Martino abbatteva il tempio e le statue degli dei. Questi ed altri – che Sulpicio dice di tralasciare – sono segni della forza dello Spirito che ovunque conduceva il santo vescovo. Nei luoghi visitati da Martino veniva eretto sempre il segno di Cristo, là dove da secoli erano adorati gli idoli «che non sapevano neanche aiutare se stessi». «Infatti dove egli aveva distrutto templi pagani, subito, nello stesso luogo costruiva chiese o romitaggi». - Le armi dello spirito
Nonostante queste azioni, che alla nostra sensibilità moderna sembrano esagerate e quasi violente, contro una forma di credenza diversa dal Cristianesimo, Martino usava altre armi per ottenere la conversione dei pagani: la preghiera, l’esempio, la parola. Infatti Sulpicio dice che «con santa predicazione così mitigava gli animi dei pagani, che essi stessi, rivelata loro la luce della verità, abbattevano i proprio templi»; e ancora: «là per tre giorni vestito del cilicio e coperto di cenere, in continui digiuni e orazioni pregava il Signore, affinché la virtù divina distruggesse quel tempio». Ma soprattutto «grazie ai suoi miracoli e al suo esempio il nome di Cristo diventò così forte, che là non si trova più alcun luogo che non sia pieno di Chiese e di eremi in grandissimo numero». Martino fu vescovo dall’animo grande e dal cuore intrepido, per questo non temeva di spezzare le abitudini del clero delle Gallie piuttosto chiuso nelle città. Sulpicio annota: «Invero prima di Martino pochissimi, anzi quasi nessuno in quei paesi aveva ricevuto il Cristo». - Martino vescovo fondatore di parrocchie rurali
«Vi sono nella diocesi di Tours alcune parrocchie la cui origine risale sicuramente a Martino. Quella di Vicus Ambatiensis (Amboise), che era diretta dal prete Marcello e dove Martino aveva cominciato a distruggere un tempio pagano, quel la di Condate (Candes-sur-Loire) dove cercò di ri – conciliare fra loro alcuni membri del clero; la parrocchia di Claudiomagus, posta “sui confini dei Bi – turigi e dei Turoni” e che probabilmente è l’odierna Cliom… Martino fondò altre comunità cristiane rurali (la cosa è nota ma non si possono precisare i nomi)». Martino si recava regolarmente nelle comunità cristiane della sua diocesi. «Ogni anno infatti egli visitava regolarmente le parrocchie, viaggiando semplicemente a dorso d’asino, in barca e talvolta a piedi, ma sempre accompagnato da una scorta di monaci e di chierici… Lavorava soprattutto ad incoraggiare i sacerdoti, a guidarli nel loro compito, a incitarli nella lotta contro l’idolatria e anche a ristabilire la pace. Nel corso dei suoi viaggi Martino fondava monasteri per coloro che erano desiderosi di vivere secondo il suo esempio (in genere piccoli monasteri che nelle campagne del centro della Gallia erano focolai di vita cristiana). L’evangelizzazione della Gallia rurale nel IV e V secolo deve molto a queste comunità ascetiche martiniane. Martino fondò anche alcuni monasteri femminili». - Martino apostolo della carità e difensore della giustizia
L’azione pastorale del vescovo Martino si estese un po’ dovunque nel Centro e Nord delle Gallie, come ci attesta Sulpicio. Lo troviamo infatti a Levroux, nel paese degli Edui (Autun), più volte a Treviri, attraverso il Lussemburgo, a Candes, dove muore. A muoverlo sono lo zelo pastorale, la sua ardente carità e l’amore per la giustizia. Combatterà tutta la vita contro la superstizione e l’idolatria, contro il male e la miseria, contro l’ingiustizia o le disgrazie immeritate. Non lo fermeranno né la fatalità delle cose, né il volere degli uomini. In ogni occasione era presente la potenza di Dio che in Martino operava miracoli. Dice Sulpicio: «La grazia delle guarigioni era in lui così potente che quasi nessun infermo si recò da lui senza recuperare subito la salute». Ebbe pietà di quel povero schiavo che si era tolto la vita e lo risuscitò, si mosse a compassione di quel padre di famiglia che a Treviri lo supplicava per la sua fanciulla malata e la guarì; nella medesima città liberò un servo del proconsole che satana torturava «con sofferenze mortali». Liberò la città dal timore di un’invasione dei barbari; a Parigi si commosse alla vista di un lebbroso e baciandolo lo tolse dal suo male. Si impietosì dei contadini a Sens ed evitò la grandine ai raccolti. In un altro borgo risuscitò un bambino.
1) Carità. La straordinaria carità che animava Martino si manifestò anche nella pietà per i peccatori. Sulpicio riferisce che «contestando il diavolo, Martino aveva ribattuto fermamente che le antiche colpe erano emendate da una migliore condotta di vita e che per misericordia del Signore si dovevano assolvere dai peccati coloro che avessero desistito dal peccare». Altrettanto grande fu il suo cuore nel perdonare gli avversari. Non rendeva a nessuno male per male perché «tanta pazienza assunse come difesa da tutte le ingiurie da poter venire impunemente oltraggiato, anche dagli ultimi chierici, lui che era il sommo sacerdote, né perciò li destituì dalla loro funzione o li respinse, per quanto dipese da lui, dal suo affetto».
2) Giustizia. In ogni occasione Martino si comportò con coraggio ed energia impareggiabili tanto che lo si potrebbe paragonare ai profeti d’Israele che non temevano di denunciare le ingiustizie, nemmeno ai re. Martino «protettore dei deboli, non esitava ad affrontare gli alti funzionari e lo stesso imperatore per ricordare loro i propri doveri ed incitarli alla giustizia». Si ricordano a questo proposito l’incontro con il tiranno Avitianus a Tours, per distoglierlo dal proposito di uccidere alcuni prigionieri politici, la visita all’imperatore Valentiniano I a Treviri e il viaggio ancora nella stessa città presso l’imperatore Massimo dove «si notava una vergognosa adulazione da parte di tutti e con degenere debolezza la dignità sacerdotale si era abbassata alla condizione di clientela del sovrano. Unicamente in Martino sussisteva ancora l’autorità degli Apostoli. Infatti, anche se dovette rivolgere suppliche al sovrano in favore di alcune persone, egli esigeva piuttosto che pregare, e, malgrado le insistenti richieste, si astenne dalla mensa di lui, dichiarando di non poter assidersi alla tavola di chi aveva tolto ad un imperatore la sovranità, all’altro la vita». Evidente allusione all’uccisione dell’imperatore Graziano avvenuta a Lione nel 383 e a Valentiniano II a cui era stato tolto il trono imperiale. Martino dimostrò di essere un vescovo forte, consapevole che il potere civile non deve immischiarsi nelle questioni religiose e, tanto meno a motivo di queste infliggere la pena capitale. Questo fu il caso di Priscilliano, vescovo di Avila, giustiziato a Treviri dall’imperatore Massimo nel 385. Martino a più riprese protestò presso l’imperatore, cercando di evitare l’uccisione dei priscillianisti, poiché sembrava che certuni avessero colto il pretesto del prisciallinismo per fare un processo alla vita ascetica. Sulpicio Severo scrive in proposito: «Solo gli occhi erano giudici: uno era dichiarato eretico soltanto in base al suo pallore e alla povertà degli abiti, non già in base alle sue credenze». - Martino vescovo-asceta e maestro
Il biografo Sulpicio attesta che Martino da vescovo era rimasto, non solo interiormente, ma anche esternamente un monaco, come lo era a Ligugé: «Compiva il suo ufficio episcopale, tuttavia in modo da non tralasciare la condotta e le virtù monastiche». Per questo proprio nelle vicinanze di Tours Martino volle dare avvio a un grande monastero, simile alle Laure dei monaci della Siria, in modo da avviare anche altri alla vita di ascesi e allo studio della Scrittura. Risulta chiaro dalla descrizione che ne fa Sulpicio, che Martino visse a Marmoutier in modo diverso dalla maggioranza degli ecclesiastici, seguendo un preciso richiamo interiore: servire Dio significava prima di tutto testimoniarlo con la vita e l’esempio, quasi ritornando alla primitiva comunità cristiana descritta dal libro degli Atti (At 2, 44). Infatti «nessuno possedeva lì alcunché di proprio, tutto era messo in comune. Non era lecito comprare o vendere nulla com’è abitudine di molti monaci, nessun’arte era esercitata, eccettuato il lavoro dei copisti… Raro a ciascuno l’uscire di cella, tranne che per recarsi al luogo di raduno per la preghiera. Prendevano il cibo tutti insieme, passato il tempo del digiuno…». Questo luogo chiamato Majus Monasterium diventerà una vera scuola di ascetismo e un vivaio di chierici e di vescovi. Sulpicio che lo aveva visitato annota: «Molti si erano astretti a questa vita di umiltà e di ascesi; molti di loro in seguito li abbiamo veduti vescovi. Infatti, quale città o chiesa non avrebbe desiderato per sé un sacerdote uscito dal monastero di Martino?». Da questo luogo di preghiera e di ascesi partiva Martino per i suoi viaggi missionari e qui ritornava, sempre accompagnato da un gruppo di monaci. Egli sapeva unire in modo singolare la vocazione anacoretica con quella cenobitica e missionaria. Nella biografia troviamo delineata la sua figura con poche significative parole: «Se le sue gesta poterono in qualche modo essere espresse con parole, la sua vita interiore e l’ascetica condotta quotidiana, e l’anima sempre tesa al cielo, nessuna disquisizione mai varrà ad esprimerli». - Martino contro Satana
Martino come uomo di Dio e vero soldato di Cristo sostenne una lunga e dura lotta contro il maligno che gli si presentava «nelle diverse forme della nequizia». Egli sapeva riconoscerlo sotto qualsiasi apparenza, fosse quella degli dèi Mercurio e Venere o quella più ingannevole del Cristo imperatore, ma «contro di lui Martino sempre impavido si proteggeva con il segno della croce e con l’ausilio della preghiera». San Martino trascorse la sua vita intento al servizio di Dio, nella preghiera, nelle veglie, nei digiuni, in continua meditazione delle Sacre Scritture, avendo sempre «sulle labbra il Cristo» e con il cuore pieno di amore, di pace e di misericordia – come afferma il biografo Sulpicio Severo –. E la sua esistenza spesa per il Cristo era come una fiaccola posta sul monte, che avrebbe illuminato i secoli. - La morte di Martino
Dopo una lunga carriera militare (331-356), un decennio trascorso a Ligugé (360-371) e ventisei anni di episcopato, la vita di Martino volgeva al termine. Aveva ormai superato l’ottantesimo anno di età, quando, in un mattino d’autunno del 397, Martino si recò nella parrocchia di Condate (Candes) per mettere pace tra alcuni chierici in lite tra loro. Partendo si sentì stanco e presentì la sua prossima fine. Dopo aver pacificato gli animi, si apprestava a ritornare a Tours, ma la febbre lo assalì e si sentì stremato. Si fece stendere su un letto di cenere e lì trascorse il tempo in preghiera. I suoi discepoli lo supplicavano di rimanere con loro. Martino si rivolse al Signore con le parole che erano segno della sua abituale sottomissione a Dio: «Signore – disse – io non rifiuto il lavoro, se tu mi comandi di montare la guardia al tuo campo… ma se ora hai considerazione della mia tarda età, la tua volontà, Signore, è per me un bene». Infine aggiunse: «Il seno di Abramo sta per accogliermi» e spirò dolcemente. Era l’8 novembre del 397. Il suo corpo fu condotto navigando sulla Loira fino a Tours. Le esequie ebbero luogo fra un immenso concorso di popolo venuto da ogni parte e perfino dalle città vicine. Alla testa del corteo procedevano duemila monaci e religiose. Tutti accompagnarono il morto vescovo fino al cimitero del sobborgo dove fu deposto tra i suoi fedeli, in una semplicissima tomba, come egli aveva desiderato e dove ben presto sarebbe sorta una basilica». Era l’11 novembre del 397. Da allora Martino sarebbe diventato il santo più amato e popolare dell’occidente.
Particolarità del gesto di San Martino
Il mantello di San Martino era metà di proprietà dell’esercito e metà di sua proprietà: ecco perchè San Martino non ha donato una metà, ma ha donatto tutta la sua parte senza pensarci due volte.